domenica 27 gennaio 2013

Battle Chasers e giovincelli...

Succede che in una libreria trovo questo volume integrale di "Battle Chasers" (Edizioni BD) al 50% di sconto e me lo prendo. Vuoi per una sorta di affetto, perché questa serie di Joe Madureira la seguivo nel mensile Cliffhanger! della Magic Press in un periodo della mia vita - successivo a BIZ Hip Hop Magazine - in cui frequentavo ancora piuttosto spesso la loro redazione… che significava potersi prendere aggratise tutti i fumetti che si voleva ;)
E vuoi perché - a livello iconografico/emozionale (?) - sulle tette di Red Monika ci ha sognato un'intera generazione!

Il punto in effetti è proprio questo.
Che nel bene o nel male, con questo fumetto Madureira segnò davvero un'epoca.
Peraltro, ancor prima di accingermi a (ri)leggerlo avevo la sensazione di non averne mai letto la fine. Ora, non ricordo nemmeno se su quel mensile la Magic lo pubblicò tutto (o chiuse prima) ma di fatto un vero finale non c'è, perché anche questo integrale - che contiene proprio tutto tutto - resta un'opera incompiuta.

Fa comunque impressione pensare che Madurerira scrisse e disegnò questa saga semi-fantasy mezza steampunk nel 1998, cioè a 24 anni.
Ventiquattro anni, capite?

"Battle Chasers" non ha mai avuto grandi pretese letterarie. Anche a detta del suo autore, che non ambiva ad essere un novello Gaiman. Era un fumetto LEGGERO, di puro intrattenimento, che da questo punto di vista non tradiva nessuna aspettativa. Anzi, tutt'altro. Narrativamente parlando è assai piacevole: semplice, divertente, con tanti personaggi delineati in maniera nettissima nei loro ruoli di buoni e cattivi. Anche riletto oggi, scorre via tutto d'un fiato (ma ricordo che pure a fine anni '90 mi piaceva molto di più dei suoi comprimari dentro a Cliffhanger!, cioè "Dangerl girl" di J. Scott Campbell e "Crimson" di Humberto Ramos). E questo solo in termini narrativi.
Perché esteticamente parlando… beh, lasciamo perdere: manda ancora a casa - oggi, nel 2013 - due terzi delle cose che si fanno negli Usa!

Ma volevo tornare un momento sul discorso dell'età.
Perché troppo spesso, soprattutto qui da noi, si tende a considerare giovani e/o esordienti anche autori che già pubblicano da tempo e/o che hanno già abbondantemente dimostrato le proprie skills.
Spesso gli autori più affermati si rivolgono a loro con quell'aria smaliziata che gli fa dire "Sono ragazzi, devono ancora crescere" (e giù con termini come freschezza, giovinezza, ingenuità o entusiasmo) solo per intendere "Ragazzo mio, troppa acqua deve passare ancora sotto a 'sti ponti per raggiungere i miei livelli professionali"...
Perché in fondo questi TRENTENNI non sono che "esordienti di belle speranze", no?
Trentenni, si: troppo vecchi per essere ancora considerati adolescenti/esordienti, ma troppo giovani da poter già considerare autori professionisti a tutto tondo?
Trentenni BLOCCATI in un'età che, messa così, non sembra nè carne nè pesce.
Bloccati in un paradosso spaziotemporale.

Poi penso al fatto che Alan Moore scrisse "Watchmen" all'età di 33 anni (ma se è per questo anche "V for Vendetta" a 29); che Frank Miller scrisse e disegnò "Il ritorno del Cavaliere Oscuro" a 29 anni, ma - senza andare oltremare - anche che un Pazienza morì a 32 anni lasciandoci ciò che ci ha lasciato.
Si parla di capolavori indiscussi, è ovvio.
Non certo del "Battle Chasers" con cui si apriva questo post, che non possiamo considerare capolavoro.
Eppure la maggior parte degli autori adulti & affermati che conosco, proprio coloro che - forti della propria produzione, spesso nell'autoconvinzione che sia sempre di altissimo livello - dispensano consigli, giudizi o quant'altro a suddetti giovincelli… beh, ad oggi - superati i quaranta - un loro personale Battle Chasers non l'hanno ancora mai fatto!

Ma si fa solo per dire, eh?
Anche perché questo è solo un post "introduttivo" (?) a quello che seguirà.
Nel quale - guarda un po' - parleremo di Giacomo Bevilacqua.

lunedì 14 gennaio 2013

La fine di un'era.

Stavo navigando sul web alla ricerca di alcune news musicali per un pezzo che devo scrivere, quando - per puro caso - mi imbatto nella copertina di un album di Mary J. Blige che non ho!
Come è possibile?
Salta fouri che questo "My life II - The journey continues (Act 1)" (che fa riferimento al suo "My life" del 1994, un vero capolavoro) è il suo ultimo album, rilasciato a novembre del 2011. Così mi accorgo che ero rimasto a "Stronger with each tear" del 2009.
Allora faccio la stessa prova con R. Kelly, e trovo "Write me back" rilasciato a giugno del 2012, mentre io ero rimasto a "Love letter" del 2010.

Ora, tenete conto che ho la discografia completa di entrambi.
O meglio: credevo di averla.
Ma soprattutto tenete conto che Mary J. Blige e R. Kelly sono due artisti che per me rappresentano un'era, una grande stagione dell'R&B americano, oltre che un lunghissimo tratto della mia vita. Per tanti motivi professionali, ma anche e soprattutto per tanti motivi personali. Di sfera affettiva.

Quindi - al di là del fatto che i loro ultimi/penultimi album mi avevano abbastanza deluso (evidentemente quello che avevano da DIRE e da DARE l'hanno detto e dato) - mi ha fatto una strana impressione, questa cosa. Una sensazione di malinconia. Un sapore. Di qualcosa che è finito per sempre, che non tornerà mai più.
Non solo perchè nemmeno sapessi che erano usciti (questo rientrerebbe nelle mia normale routine sotto la voce "Perdo colpi")… ma proprio perché mi rendo conto - con un certo distacco - che non me ne può fregare di meno!!!

lunedì 7 gennaio 2013

Django Unchained.

Dunque, da dove cominciare?
Per esempio, dal dire che - nonostante non raggiunga certe raffinatezze di "Bastardi senza gloria" (sempre che si possa definire raffinata qualsiasi cosa lui diriga) - questo nuovo lungometraggio di Quentin Tarantino è semplicemente bello e potente?
Centosessanta minuti di puro Divertimento con la D maiuscola!
Che se già nel 2009 aveva scritto e diretto un-film-stilisticamente-tecnicamente-e-formalmente-perfetto, il regista originario del Tennessee sembra non porre freni - e limiti - al suo talento, superandosi (e sorprendendo) di volta in volta, riuscendo a perfezionare la sua stessa perfezione stilistica, tecnica e formale?

Oppure che - nonostante il titolo, la campagna che gli è stata fatta, il cameo di Franco Nero, l'ammiccare al cinema di genere, e nonostante gran parte delle musiche scelte per la colonna sonora (su cui torniamo dopo) - "Django Unchained" NON E' UNO SPAGHETTI WESTERN?
I comunicati stampa, i quotidiani e i telegiornali che in questi giorni ne stanno parlando ampiamente per via della presenza del regista e del cast qui a Roma (utilizzando a mo' di copia & incolla quegli stessi comunicati stampa, senza mai un minimo di approfondimento), continuano ottusamente a definirlo tale, ma  - ribadiamolo! - non è uno spaghetti western!

Troppo southern comfort per esserlo.
Ah, no... quello è un whiskey!
Troppo impregnato di Stati Uniti del Sud pre-guerra di Secessione per esserlo.
Uno spaghetti western classico, avrebbe avuto pistoleri cattivissimi, proprietari terrieri che terrorizzano piccole cittadine sperdute del Nevada con i loro sceriffi inadeguati, i loro saloon, i loro bordelli, lo straniero bello e tenebroso che giunge da fuori per fare sommaria giustizia e via con tutti i clichè del caso (che poi, a dirla tutta, nella prima parte del film qualcosa di questo tipo c'è).
E quando in giro non c'erano pellerossa da massacrare, al massimo potevano sfornare un esercito messicano - sempre cattivissimo! - come nemico. Ma non si sarebbero mai svolti all'interno di una piantagione di cotone del Mississippi, non avrebbero mai affrontato tanto apertamente un tema sociale/politico serio e PESANTE come la schiavitù.
Argomento che tutt'oggi mette ancora in imbarazzo l'americano medio, come una vergogna mai cancellata, della quale - per quieto vivere o ipocrisia - è sempre preferibile non parlare.

Ecco. Come ho già avuto modo di scrivere altrove, ci sarà sicuramente qualcuno che proverà ad intortarvela dicendovi  - attraverso un abile uso dei suoi strumenti critici - che "Django Unchained" è un brutto film di Tarantino, ma voi non dategli retta perchè saranno solo sciocchi esercizi di stile, tipici di un certo tipo di giornalismo snob, del recensore che vuol tentare di superare colui che sta recensendo.
Così come proveranno a dirvi che il cinema western - o anche lo stesso Tarantino - non dovrebbe mai affrontare temi sociali o politici, ma limitarsi (per modo di dire) a produrre intrattenimento, con azione, sangue a fiotti, dialoghi brillanti, musiche da brivido, movimenti macchina magistrali e via dicendo.

NO.

Tarantino, oltre a mettere tutto ciò dentro al suo film, parla dello schiavismo americano come nessuno aveva mai fatto prima di lui, sbatte questa pagina vergognosa della Storia in faccia agli Stati Uniti (di fatto, anche in faccia al resto del mondo) e lo fa a modo suo, con una violenza ai limiti dello splatter, con un'ironia spesso cinica, e - perchè no? - anche con una certa dose di presunzione!
Sottile poi come l'unico possibile spiraglio di "amicizia" tra un bianco ed un nero (anche se per due ore e quaranta sentirete ripetere negro centinaia di volte) avvenga attraverso la volontà di un uomo tedesco, non americano. Una sottiglezza che potrebbe passare inosservata, e che invece è una provocazione fortissima.

Bene. Ora parliamo del film o no?
Django è uno schiavo nero (interpretato da un granitico Jamie Foxx) che viene liberato dal Dr. King Schultz, un cacciatore di taglie tedesco che se ne va in giro "travestito" da dentista (grazie alla SUPERBA prova d'attore di Christoph Waltz), che in fondo è il VERO protagonista del film. Se Waltz vi aveva già lasciato a bocca aperta interpretando il Colonnello delle SS Hans Landa in "Bastardi senza gloria", apettate di vederlo in questa occasione, tantopiù se aveste la possibilità di seguire il film in lingua originale (la sua parlantina e il suo inglese forbito sono sensazionali, snocciolati di fronte ai villici del Sud e alla loro ignoranza).
Ad ogni modo, il buon Dottore non libera subito Django. Prima lo fa lavorare per lui, trasformandolo in un killer con la promessa di renderlo un freeman. E' in questo lasso di tempo (un inverno) che nasce/cresce il rapporto tra loro, divenendo umano. Anche se Django è tutto meno che "umano": nella sua sete di vendetta, nella sua cieca ricerca della moglie, diventerà più spietato dei suoi avversari, senza concedere alcuna pietà a nessuno, nemmeno se si tratta di fratelli neri!
Il suo unico fine è riprendersi Broomhilda (l'attrice Kerry Washington, ancor più bella a Roma in eleganti abiti civili e frangetta) che curiosamente parla tedesco, un escamotage narrativo che servirà ai nostri due per ideare il loro improbabile piano di liberazione, oltre che accostarla al mito norreno secondo il quale lei può essere Brunilde e Django il suo eroico Sigfrido.

E poi?
• In realtà non voglio svelarvi altro sulla trama...
E poi c'è Don Johnson, mio personale eroe giovanile! Don Johnson in gran rispolvero, davvero in forma. Narrano le leggende che anche lo stesso Jamie Foxx (che non dimentichiamoci aver interpretato il detective Ricardo Tubbs nel "Miami Vice" di Michael Mann del 2006) quando lo ha incontrato per la prima volta sul set, gli abbia gridato estasiato: "Tu sei il vero Sonny Crockett!!!"
Ad ogni modo, qui veste i panni del proprietario terriero Spencer Gordon Bennet detto Big Daddy. Ed è perfetto - nel look, nei modi, nella parlata - essendo egli stesso un vero uomo del Sud (è di Flat Creek, nel Missouri). Senza considerare che è il protagonista di una delle scene più divertenti di tutto il film, che riguarda i cappucci del Ku Klux Klan. Ma non ve la racconto, troppo spassosa per non godervela con i vostri occhi.

C'è anche l'immenso Walton Goggins (che era il detective Shane Vendrell in "The Shield") in una parte secondaria, ma vabbè...
Passiamo ai cosiddetti pezzi grossi: Samuel L. Jackson e Leonardo Di Caprio.

Jackson intepreta lo schiavo Stephen, invecchiato e (quasi) irriconoscibile. Sempre e comunque un fuoriclasse. Stephen è il vero bastardo (senza alcuna gloria) di tutta la pellicola, non c'è storia! Rappresenta proprio il lato più INFAME dello schiavismo, cioè quello degli "schiavi di casa" che spesso - per opportunismo e sopravvivenza - diventavano più razzisti e crudeli con gli altri neri di quanto non lo fossero gli stessi padroni bianchi.
In questo caso, il rapporto che lo lega al suo padrone - Di Caprio - è subdolo e affascinante: sempre servile e piegato a novanta quando è in sua presenza di fronte agli altri, ma - notatelo - nella scena in cui rimangono da soli nello studio, il padrone sembra essere lui! Non è più piegato (anche fisicamente, nella recitazione), beve whiskey con eleganza, imbecca Monsieur Candle, gli suggerisce il da farsi. Proprio come fa un adulto con un bambino. Notevole.

Di Caprio sarebbe il cattivone del film, anche se sia Django che Stephen sono più cattivi di lui! Interpreta Calvin Candle, ereditiero della più grande piantagione di cotone del Mississippi, denominata Candyland, dove vive con la sorella (un "manichino imbellettato" con cui il regista estremizza tutti gli stereotipi sulle famose donne del Sud, i fiori d'acciaio). Non ho mai amato particolarmente Di Caprio, ma nelle mani di Tarantino eccelle anche lui, come Brad Pitt in "Bastardi senza gloria".
E' un padrone/schiavista ricco, capriccioso e annoiato (piuttosto che dedicarsi a Candyland - gestita da Stephen - preferisce divertirsi con le lotte tra Mandingo) che risulta ridicolo, con il suo pallino per la Francia senza però conoscere una sola parola di francese, e infatti "Alexandre Dumas era negro!"... ma Candle ritiene i negri biologicamente inferiori giustificando questa atrocità con la teoria scientifica della frenologia (?) pur accompagnandosi - nel suo privato - con una ragazza meravigliosamente bella che, guarda un po'... è nera!

Ed è tutto, sul film.
Dicono che, secondo le intenzioni di Tarantino, "Django Unchained" rappresenti il secondo capitolo di una ideale trilogia della vendetta (?) cominciata con "Bastardi senza gloria", basata sul revisionismo storico. Lì si ipotizzava l'assassinio di Hitler ben prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, che non è mai avvenuto. Qui si affronta lo schiavismo, con una presa di coscienza ed una "rivincita afroamericana" che non ha mai avuto luogo. Sembra che la prossima pellicola (che certe voci dicono intitolarsi "Killer Crow") sia incentrata su uno squadrone composto esclusivamente da soldati neri, impegnati a combattere nella Francia del 1944, subito dopo lo sbarco in Normandia. Quindi ancora la Seconda Guerra Mondiale, e ancora la questione razziale.
Un file rouge che potrebbe unire concettualmente i tre film.
Staremo a vedere.
Ora però parliamo della colonna sonora.



Dirvi che me la sono scaricata la sera stessa in cui sono tornato dal cinema credo sia piuttosto indicativo. Personalmente, la trovo forse la più bella colonna sonora "inventata" da Tarantino fino ad oggi, nonostante le sue siano tutte molto curate (nella selezione dei brani) e quindi molto belle. Rispetto alle precedenti, questa contiene molti più pezzi originali, scritti appositamente per il film. Ma non mancano certo le ottime selezioni, un marchio di fabbrica.
A cominciare da tutte quelle musiche "rubate" dalle colonne sonore di ALTRI western, perché - come accennavo all'inizio del pezzo - è proprio il commento sonoro del film ad essere il più grande omaggio al genere spaghetti.
"Django Unchained" si apre sin dalla sigla con il celebre pezzo di Luis Bacalov e Rocky Roberts (!) composto proprio per il "Django" di Sergio Corbucci del 1966, e si chiude nei titoli di coda con "Trinity" di Annibale e i Cantori Moderni* (da "Lo chiamavano Trinità" di Enzo Barboni, 1970).
* A voler essere proprio precisetti, il tema del famoso film con Bud Spencer e Terence Hill è stato scritto e composto dal maestro Franco Micalizzi (che generalmente componeva colonne sonore per i poliziotteschi) e solamente fischiettato/cantato da Alessandro Alessandroni, vero nome di Annibale e del suo gruppo vocale, cioè i Cantori Moderni, nelle cui fila peraltro cantava - da soprano - anche quella stessa Edda Dell'Orso che compare in un'altra traccia di questa stessa colonna sonora!

Nel mezzo - tra le altre - "I giorni dell'ira" di Riz Ortolani tratta dall'omonimo film di Tonino Valerii del 1967 (curioso che anche Nicolas Winding Refn nel suo recente "Drive" abbia ripescato il maestro Ortolani) o ancora Bacalov - con Edda Dell'Orso - in "His name is King" ("Lo chiamavano King" di Giancarlo Romitelli, 1971).
Ma non solo western, perché per esempio c'è anche "Nicaragua" di un altro veterano delle colonne sonore cinematografiche come Jerry Goldsmith - qui con Pat Metheney (!) - tratta da "Sotto tiro", bellissimo film del 1983 interpretato da Nick Nolte e diretto da Roger Spottiswoode.

Sul fronte dei brani inediti, fa quasi impressione - soprattutto se si sta seguendo il film in lingua originale - sentire all'improvviso la voce di Elisa che canta (in italiano) "Ancora qui" sulle note scritte dall'immancabile Ennio Morricone.
• Ho già sentito criticarla, mentre io la trovo tanto struggente quanto azzeccata.
Morricone firma anche "The braying mule""Sister Sara's Theme" e "Un monumento".

Comunque fa un certo effetto vedere così tanti artisti italiani presenti nella tracklist di una colonna sonora di un film che è pur sempre un kolossal americano, non è vero?

Ma per un amante della musica nera come il sottoscritto - e considerando che il film parla proprio di un capitolo fondamentale della Storia afroamericana - le vere chicche arrivano con il duetto virtuale tra James Brown (!) e Tupac Shakur (!!!) in "Unchained", da John Legend con "Who did that to you?", da RZA (che già aveva collaborato con Tarantino in "Kill Bill") con "Ode to Django", da Anthony Hamilton ed Elayna Boynton con la graffiante "Freedom", da Rick Ross con "100 black coffins" che - oltre alle liriche di Tupac - porta l'impeto del rap all'interno di un western. Senza stonare mai. Ma, anzi, funzionado alla perfezione!
• Uhm, forse però qualcuno lo aveva già fatto. Qualcuno come Mario Van Peebles nel suo "Posse - La leggenda di Jessie Lee" del 1993, dove la commistione tra rap e black-western era già stata tentata. Senza molto successo. Nè del film. Nè tantomeno della sua colonna sonora. Anche se a me "Posse, shoot 'em up" piaceva un casino!

venerdì 4 gennaio 2013

Girl on fire.

Alicia Keys: "Girl on fire"
(RCA/Sony Music).

Non cattura al primo ascolto il nuovo album di Alicia Keys.
Non come i suoi primi quattro, di cui ti innamoravi subito.
Lo avevo capito già dal lancio radiofonico del primo singolo, quel "Girl on fire" che titola anche l'intero disco, e che nonostante i ripetuti ascolti - nel vano tentativo di farmelo piacere a tutti i costi! - e nonostante la sua Inferno Version contenuta nel CD (con il featuring di Nicki Minaj che sembra esistere solo per fare inutili featuring, come Pitbull) continua a non convincermi, a non prendermi.
Eppure, saltando a più pari questo brano, cose buone ce ne sono eccome!

A cominciare dalla traccia di apertura - "De Novo Adagio" - con cui Alicia, come da tradizione, ci introduce seduta al suo pianoforte.
Seguita da "Brand new me", quasi un manifesto con cui si (ri)presenta al pubblico: una nuova Alicia Keys non solo nel taglio dei suoi capelli e nel suo essere donna/mamma, ma anche e soprattutto nel suono e nelle intenzioni: "E’ passato un po’ di tempo, io non sono più chi ero prima / Tu sembri sorpreso, le tue parole non mi bruciano più / Avevo intenzione di dirtelo ma penso sia facile da capire / Non essere arrabbiato, è soltanto il marchio della nuova me / Non essere cattivo, ho solo trovato il marchio della libertà"… "Bisogna intraprendere una lungo percorso per arrivare qui / Bisogna avere coraggio, e una ragazza coraggiosa ci prova / Bisogna inventare una scusa in più, e dire un bugia in più / Non essere sorpreso"…

Infatti alla terza traccia si decolla.

Se con un termine come rock progressivo intendiamo un determinato genere di rock anni '70 caratterizzato da grandi profusioni di tastiere, sintetizzatori psichedelici e batterie sincopate, per questa "When it's all over" bisognerebbe allora inventare un nuovo termine - progressive R&B? - perché la Keys (con la complicità di Jamie Smith) si lancia in una vera e propria sperimentazione sonora che lì per lì ti spiazza, ma più la si ascolta e più funziona. Davvero un grande pezzo, anche nella performance vocale. Che si apre ad un'unica concessione di dolcezza solo nel finale, con la voce di Alicia che parla con suo figlio Egypt (avuto nel 2010 dal marito Swizz Beatz, che peraltro nel disco produce la non memorabile "New day"). Certamente uno dei due momenti migliori dell'album.

L'altro, il secondo, è dato dal duetto con l'immenso Maxwell su "Fire we make", una down-tempo meravigliosa che ci proietta come per magia nelle atmosfere dei migliori dischi di metà anni '90, cioè lo stato di grazia dell'R&B americano (prima che si annacquasse realmente con il pop), quando durante/dopo l'ascolto di certi album nascevano bambini, come dice Irene.
Pezzo di grande eleganza ed intensità, insomma.
Che poi, leggendo le firme dell'intera tracklist, compaiono anche un paio di quelle vecchie volpi (geniali) della produzione anni '90, cioè Rodney "Darkchild" Jerkins per "Listen to your heart" e Kenny "Babyface" Edmonds per "That's when I knew". Non sarà propriamente un caso, no? Comunque sono entrambe assai romantiche.

Stupisce casomai di più la firma di Bruno Mars tra gli autori di "Tears always win", perché - per come conosco Mars - non mi sarei certo aspettato un pezzo così classicamente retrò, di sapore così sixties, quando la black music era davvero pregna di soul!
Notevole inoltre la presenza - da autrice - della giovane Emeli Sandè su ben tre pezzi, cioè la già citata "Brand new me" oltre a "Not even the King" (una ballad molto riuscita) e "101", l'ultima traccia del disco. Che oltretutto al minuto 4:29 nasconde anche una breve ghost track: un'Alleluja probabilmente superflua, ma non per questo meno suggestiva.

Non cattura al primo ascolto il nuovo album di Alicia Keys.
Ma è ugualmente molto bello: concedetevelo!